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1.1. Antefatti; Il fondatore
Le scuole melleriane: 1818-1837

Le scuole melleriane
1818 – 1837

1. Antefatti

Siamo al 30 maggio 1772. L’Ossola deve aprire i polmoni a una dolce primavera; tutto è pace, serenità di piccole aspirazioni, vita patriarcale. Si vive tanto bene così! Invece, nel piccolo borgo di Domodossola qualcuno viene disturbato nel suo dolce far niente. È il signor Pretore Roggiero che stringe fra le dita stizzose una … serie di Quesiti cui deve rispondere diligentemente. Ma che cosa fanno a Torino? Perché tormentare un pacifico curatore della pace pubblica? Infatti, dalla capitale sarda, S. Eccellenza (nientemeno) il Sig. Cav. Morozzo vuole sapere - quante cose vuole sapere!

«Quale sia l’attuale sistema delle pubbliche scuole in Domo. Chi supplisca alle spese della manutenzione di esse e de’ Maestri. Quali classi qui s’insegnino, o altrove. Se siavi qualche lascita, o fondazione destinata a tale uso, da chi sia amministrata, con quali regole, e condizioni. Se nel caso che venisse a stabilirsi ivi un Collegio di scuole, l’amministrazione economica della Valle sarebbe in istato di somministrare gli stipendi proporzionati ai professori, che vi si fisserebbero, e di quali Cattedre potrebbe comporsi un tale Collegio, e finalmente qual casa sarebbe più adattata a quest’oggetto».

A Domodossola non c’è niente; si fa niente; non si può fare niente, e … non metteteci, per carità, nessun Collegio. Così, voleva rispondere il lodato Pretore Roggiero. Poi rifletté meglio, si consigliò, temette per il suo posto di autorità vigilante sul piccolo borgo, e finì per rispondere secondo verità; caricando magari le tinte. Quanto allo stabilirvi un collegio - cioè un complesso organico di scuole superiori - non se ne deve fare nulla: non è da sprecare tanto tesoro per gente povera, rozza, e montagnarda. L’amico trova anche modo di graffiare qualcuno, per es. i direttori di questa comunità amministratrice che, in poche parole, devono avere aiutato a far perdere i lasciti delle buone persone. Risale molto indietro nella storia locale e ci dà un bel resoconto dello stato culturale della nostra regione. Sentiamolo nelle sue informazioni responsive, conservate a Torino nel R. Archivio di Stato - Sez. Iª - Istruzione Pubblica: Scuole Secondarie e Collegi - Domodossola. M. 8.

«Informazioni responsive a’ contrapposti quesiti, ricercate da S. E. il Sig. Cav. Morozzo con lettera de’ 30 maggio 1772.

L’attuale sistema di queste scuole è ristretto in un sol maestro Prete, che insegna leggere, scrivere, ed i primi rudimenti della grammatica secondo la qualità de’ rispettivi scolari: non ha obbligo, stipendio, né casa fissa per simil oggetto, ma se gli corrisponde da’ parenti de’ scolari mensile ricognizione ad u arbitrio, o sotto certa privata convenzione di ognuno: negli altri luoghi dell’Ossola o che non vi è scuola, o che si esercita da’ beneficiati aventi tal carico col solo insegnamento della lettura, e scritturazione in tempo d’inverno.

Il Sacerdote D. Gio. Antonio Roabio di Baceno con suo ultimo testamento de’ 6 aprile 1637 Rog. Zoni fra le altre pie disposizioni ivi espresse assegnò il reddito di vari censi, crediti, ed altri effetti generici per stipendiare un maestro di grammatica in questo Borgo coll’obbligazione di tre messe ebdomadarie e meglio come appare dall’annesso tranconto; ma secondo la voce pubblica devono essere stati consumati, o molto diminuiti i capitali da’ direttori di questa comunità amministratrice: ora in sostanza non si sa, e sarà difficile di venire al chiaro in che consistessero tali fondi, da chi, e come siansi distratti: perché qui non vi è, né vi fu mai retto maneggio degli affari pubblici, e Luoghi pii, ma il tutto va, ed è andato all’oscuro, ed alla peggio, senza regolarità e chiarezza di rendimento di conti con lacrimevoli detrimenti del pubblico, e privato bene.

Non si crede attuabile lo stabilimento di un Collegio di scuole nel presente Borgo:

1) per la qualità del paese in sé miserabile attesa la scarsezza di terreno coltivabile, e perciò non suscettibile dell’aggravio a corrispondere stipendi proporzionati a’ professori, che vi si richiederebbero.

2) per mancanza di alunni perché povera, rozza, e montagnarda è l’universalità del popolo data a’ traffici, ed altri mestieri in Piemonte, e paesi esteri, e su tal piede si allevano i figliuoli per guadagnarsi il vitto: sicché pochi rimarrebbero agli studi.

3) e infine per difetto di casa, mentre questo Borgo consiste, per così dire, in un pugno circondato da mura, le quali lo difendono dagl’impeti del torrente Bogna, che lo minaccia di soppressione, e non vi esiste fabbrica atta alla formazione di un Collegio alla riserva di quella comune, che dovrebbe distruggersi, e riedificarsi con gravissima spesa.

Parrebbe conveniente, e sufficiente in questi paesi di Montagna lo stabilimento di una scuola pubblica diretta da un buon Maestro capace ad insegnare l’umanità, ed assistito da un ripetitore da stipendiarsi co’ frutti di varie lascite, che si maneggiano, e consumano malamente con distrazione eziandio degli stessi capitali, come molti se ne vedono i casi: in tal maniera verrebbe a provvedersi all’importante affare dell’educazione della gioventù, e massime civile senz’aggravio, anzi con sollievo del pubblico.

Dat. Domo d’Ossola addì 7 Giugno 1772. Roggiero Pretore.

Ringraziamo il signor pretore per le notizie che ci tramandò e notiamo quel Don Giovanni Antonio Roabio di Baceno, al quale si può essere grati se a Domodossola, fin dal 1637, veniva provvista una istruzione più elevata e promettente. Fu poi anche l’unica che continuasse per circa due secoli, sempre limitata però e incapace di miglioramento, forse - e senza forse - per causa degli sperperi del capitale, già lamentati dal pretore Roggiero. Il popolo ne conservò il nome, chiamandola sempre «scuola Roabbio» sino a quando un benefattore assai più facoltoso del buon prete di Baceno, il Conte Giacomo Mellerio non diede un gran colpo di timone alla zattera dell’istruzione ossolana, riformandola, ricostruendola e consegnandola, più tardi, a una ciurma di marinai che l’avrebbero condotta alle più ambite glorie. Il piccolo lascito Roabbio, con decreto di S. Ecc. il Cardinale Morozzo, verrà dimezzato a vantaggio delle scuole di Grammatica italiana e Comunali del borgo.

 

Il Fondatore

Nell’atrio dell’attuale Collegio ci sono due busti, opera dello scultore Confalonieri : Rosmini a destra, Mellerio a sinistra. Vedendoli, un noto giurista milanese esclamava: «A destra il santo e l’ingegno eletto; a sinistra il filibustiere austriacante, dal cervello piccolo!» L’ingiustizia di questo giudizio sul Mellerio è tanto più insulsa quanto più è cieca. Fondati sopra un «sentito dire» e sopra le facili voci dei monopolisti della patria di cento anni fa, si continua a scartare un uomo, per molti lati, eccezionale. Queste righe avrebbero lo scopo di ridare all’Uomo la sua giusta fama. Uomo che supera il ruolo dei comuni benefattori della terra natia per estendere il suo volo a una altezza quanto i più non sognano.

Era nato in questa Domodossola, «pugno circondato da mura», il 9 gennaio 1777, proprio cinque anni dopo che il nostro pretore Roggiero Pietro aveva inviate quelle famose informazioni scolastiche, ignorando - credo bene - che il rampollo di un suo amico avrebbe rovesciati tutti i timori suoi, fondando quel collegio che egli tanto deprecava. Giacomo, Mellerio, non conte e non ricco, nacque da agiati genitori, il Dottore Carlo Giuseppe, capo dell’ufficio Registro (Insinuatore) del borgo, e Rosa Sbaraglini, Vigezzina, in quella casetta modesta alla Motta, ora Via Paolo Silva. L’insinuatore del registro, (fratello al ricchissimo milanese, consigliere di stato, Gian Battista Mellerio, già arricchitosi col monopolio delle gabelle del sale nel Lombardo-Veneto e, coi cugini suoi Carlo e Giacomo collaboratori, fatto conte da Giuseppe II) l’insinuatore dico moriva due anni dopo la nascita del piccolo Giacomo, lasciando la vedova e tre creature nella modesta condizione di ogni impiegatuccio. Se ne commuove lo zio Conte; chiama a vivere nel suo sontuoso palazzo milanese la vedova; pone le due nipotine in convento e si tiene il piccolo. A dieci anni questi è messo in collegio, a Siena dai Padri Scolopi: il famoso collegio Tolomei. Ne uscì a 18 ponendosi sotto la guida dello zio che gli fece girare mezza Europa, dandogli modo di acquistarsi una cultura e una esperienza non comune. Conoscitore di varie lingue e artista; compito gentiluomo e, presto, acuto amministratore dei molti beni dello zio. Non ancora trentenne, appare tra gli uomini più in vista in Milano e imparenta l’umile sua casa con la migliore nobiltà milanese; egli sposando la Contessa Elisabetta di Castelbarco, e una sua sorella sposando il conte Gian Luca della Somaglia. Non doveva poi essere uomo di «cervello piccolo» se Napoleone I e il viceré de Beauharnais lo prendevano a stimare e a servirsene per importanti uffici: Savio nel Magistrato di Sanità; Consigliere Generale e poi Membro della Reggenza; infine Gran Cancelliere del Regno Lombardo-Veneto.

Dopo il 1814 e la disgraziata fine di Prina, egli è Membro del Governo Provvisorio; odiando i francesi e ignorando gli italiani, che non esistevano, anche il Mellerio, con la maggioranza dei ben pensanti e dei colleghi di Reggenza, pone il caduto regno sotto la protezione dell’Austria. Non sbaglierò vedendo in questo atto un segno di riconoscenza verso quel governo che aveva arricchito i pubblicani suoi zii, ai quali egli doveva tutto.

                Il conte Giacomo Mellerio

Educato come era stato non poteva pensare altrimenti; e come lui pensavano i più. È troppo comodo, dare a quella gente il nostro attuale modo di pensare! Furono degli illusi? Certo non trovarono più il buon governo di Maria Teresa e di Giuseppe II, e il Mellerio se ne accorse tra i primi. Fatto Vice-Governatore di Milano, Consi-gliere intimo, Ambasciatore del Lombardo Veneto, trasportò a Vienna i suoi penati. Il 20 settembre 1817 S. Maestà Imp. Francesco II gli conferì il titolo di Conte.

Il popolo, non milanese soltanto ma lombardo, amava il Mellerio per le sue milionarie, prodighe beneficenze e lo sapeva deciso a tener libero lo Stato; ma egli a che cosa riuscì con quel rapace, dispotico austriaco? Riuscì a perdere … l’impiego. Dopo cinque anni, nel 1819, protestando apertamente contro la mala fede imperiale alla quale, del resto, cominciava a spiacere la franchezza di lui, se ne ritornò da Vienna rinunciando sdegnosamente - o caritatevolmente - a beneficio delle opere pie di quella città, il suo vistoso stipendio! Posso ricordare queste sue indignate parole: «Io sono un nulla, eppure la mia nazione attende da me ch’io le sia di qualche vantaggio, ed opina che io possa qualche cosa. Continuando nella mia carica senza punto giovarle, non mi attirerei che delle odiosità, né farei che danneggiarmi negli interessi miei domestici». Come poté, nel 1847, Cesare Correnti scrivere, infamando: «A Vienna il Mellerio fece misera prova del suo ingegno … e per vanità si lasciò adoperare in intendimenti ostili alla patria»?

Forse c’è anche qui il solito premio umano di chi opera per gli altri!

Non ambizioso, il Mellerio, dalle sue disgrazie famigliari trovava spinta a dedicarsi altrui. Rimasto vedovo a 31 anni, tre figli premorti alla moglie, si vede morire in quello stesso 1808 anche la madre Sbaraglini e l’anno dopo lo zio Gianbattista. Conforto unico, una debole bambina, Giannina, che gli morirà a 17 anni nel 1822! Solo. Chi gli avrebbe impedito di formarsi - e ben prima, quando era nella gloria - una famiglia nuova? Volle per famiglia gli affamati della Brianza, i poveri del pavese, gli indigenti di Milano e tutta la sua antica Ossola. Volle, tra l’altro, proteggere gli indiziati dall’Austria e farli sicuri in Francia! Ecco il suo errore; perciò fu impillaccherato il suo nome. I dodici milioni che lo zio gli lasciava morendo, si consumavano in gran parte, e in fretta, per il popolo. Pareva che l’erede volesse far ritornare donde era venuta, la ricchezza dei suoi insigni pubblicani. Un bisogno segreto e innato di giustizia? Non lo posso sapere; ma è grande vedere un uomo di quella fatta e di quell’avvenire chiudersi in una vita privata, intenta a beneficare e a santificare se stesso. L’Austria divorava la Lombardia? Mellerio si affannava a sfamarla nella parte più bisognosa. E se questo non era amore di patria, bisogna dire che i valori morali fossero rovesciati. Anzi, una cosa bisogna dire: si doveva far credere che l’Italia l’avesse fatta la carboneria massonica. Niente carità, niente cattolicismo, niente preti. Ecco l’unica ragione della calunnia melleriana o del silenzio intorno a lui. E sarebbe ora di finirla con storie di tal sugo. Rimarranno intanto e sempre mirabilmente rivelatrici le parole che Rosmini scriveva a Cantù, il 6 gennaio 1848, morto appena il grande amico:

«Mi sono proposto di non parlare inutilmente di politica: questo però non mi terrà da dirvi quanto dolore provi al dolore dei miei amici. Il silenzio di cui finora si copre la memoria di Mellerio è una grande ingiustizia, e godo che voi abbiate sparso dei fiori sulla sua tomba. Se ben si sapesse il contegno tenuto da quest’egregio in molte circostanze della sua vita, se ne leverebbe entusiasmo nel pubblico, e ne riceverebbero improvviso splendore tutte l’altre molte e rare sue virtù».

Da Vienna, il Conte Mellerio pensava alla sua Ossola. Aveva già fondate quattro borse di studio per giovani poveri che avessero voluto continuare i loro studi in seminario. Aveva comprato a Domo il soppresso Convento delle Orsoline per farlo sede di scuole primarie per le bambine. La sua iniziativa correva più in là, decisamente volendo che il borgo natale avesse un complesso di scuole organico, superiore. In questa idea dobbiamo trovare il nucleo dello sviluppo attuale della città di Domo.

Il canonico prof. Guglielminetti, uno dei primi tre
insegnanti del Ginnasio melleriano

La scuoletta Roabio, boccheg-giante dalla fondazione sarebbe stata assorbita o annullata da un vistoso progetto. Mellerio chiama il cognato, architetto C. te Gian Luca della Somaglia, e lo impegna a costruirgli in Domo un palazzo degno e capace della scuola che egli vuole. Pubblico il rilievo del terreno con gli abitati che il Mellerio acquistò a questo scopo. Diversi fabbricati dei Guglielminetti, una casa Ceschi e altre ancora vengono assorbite: lo spazio insomma fra la contrada di Piazza S. Rocco, la contrada delle Vecchie Macellerie e parte del terreno ove oggi sorge il palazzo comunale. La costruzione si inizia nel 1816 con fronte a piazza Mellerio: è il palazzo che noi chiamiamo Collegio Vecchio; fabbricato di gusto e adatto appunto per i corsi di Latinità e Umanità. È pronto due anni dopo e lo si inaugura rumorosamente il 5 novembre.

Mellerio è lontano, a Vienna; in un ambiente di non dubbia e prossima rottura. Non importa: nella piccola patria sta iniziandosi un’opera di bene che porterà il suo nome nei secoli. Poteva ben rinunciare ai favori della sacra maestà imperiale di Francesco II. Il decreto di apertura emanato dal Magistrato della Riforma di Torino, dietro parere favorevole del Censore Universitario, era stato ottenuto dallo stesso Architetto C. te della Somaglia, a nome del Mellerio.

Primo professore: il canonico Tommaso Gianani. Egli diverrà Rettore del Collegio, Direttore degli Studi, pur continuando la sua scuola di Grammatica. Con lui collabora un altro canonico, il sig. Bajocchi Saverio e poco più tardi anche il sig. can. Guglielminetti i quali due disimpegnarono pure le funzioni di Direttore Spirituale. Le scuole si avviarono bene. Il 10 settembre 1825 un alto elogio venne partecipato ai detti insegnanti «per lo zelo e diligenza mostrata da codesti Signor Direttore e Professori». Vigila le scuole il Prefetto del Regio Tribunale di Domo, Avvocato Porta, sedente facente funzione di Riformatore delle Scuole della Provincia Ossolana. Mancava infatti un vero Riformatore, per cui, due anni dopo lo stesso can. Gianani chiede e ottiene dal Magistrato di Torino che se ne elegga uno.

Col 1825 - 9 aprile - il Mellerio stende, di proprio pugno e in 13 articoli, un preciso Regolamento per le sue scuole di latinità.

Naturalmente sotto la assistenza oculata del Mellerio, che visitava spesso le sue scuole e le faceva visitare da suoi procuratori, esigendo anche minute informazioni dal direttore e dai professori, esse fiorirono quanto potevano meglio, date le ristrettezze delle possibilità e finalità locali. Da Torino si guardava bene a questa opera, tanto che nel 1826, il 3 ottobre, lo stesso Marchese Ministro Brignole presidente dell’Eccellentissimo Magistrato si degnò visitarla; l’avvenimento fece epoca.

Ma il Mellerio vedeva più lontano, e pensando ai domani temeva forse che, lui scomparso, le sue scuole facessero la fine di quelle Roabio. Tanto più che non aveva ancora stabilito nessun fondo alla manutenzione di esse. Conservava in sua proprietà il palazzo scolastico, e in sua mano era pure l’amministrazione di ogni impegno inerente alla scuola. Bisognava quindi che egli pensasse alla continuità di quell’opera; non potendo neppure illudersi di lasciarle allo Stato il quale considerava soprannumerarie le scuole di Domo e le avrebbe lasciate morire, essendocene già delle simili a Pallanza e Arona. Ma la Divina Provvidenza aveva preparato l’uomo che sarebbe venuto incontro al suo proposito: Antonio Rosmini.

 

 

 
 

 



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